© Giancarlo Guzzardi

giovedì 22 febbraio 2007

Solitudini australi

Rileggo un passo di un’opera di Erick Fromm -“(…) il senso di solitudine, d'impotenza di fronte alle forze della natura e della società, possono rendergli insopportabile l'esistenza. Diventerebbe pazzo se non riuscisse a rompere l'isolamento, a unirsi agli altri uomini, al mondo esterno.
Il senso di solitudine provoca l'ansia, anzi è l'origine di ogni ansia. Essere soli significa essere indifesi, incapaci di penetrare attivamente nel mondo che ci circonda.
Questo profondo bisogno dell'uomo dunque, è il bisogno di superare l'isolamento, di evadere dalla prigione della propria solitudine.
L'impossibilità di raggiungere questo scopo porta alla pazzia
.”-

Eppure vi sono uomini… e donne, che paradossalmente cercano questo isolamento, questa solitudine così dirompente. Nel loro animo c’è una smania di uscire proprio dal mondo, dal contesto conosciuto, dal ritmo di vita imposto dalla società. Un bisogno impellente che a volte può trovare giustificazione solo in un richiamo ancestrale di spazi incontaminati ed orizzonti sconfinati. In questo essi cercano di seppellire tutto ciò che li lega al proprio passato e ad ogni legame sociale ed umano, arrivando a volte ad abbracciare uno stile di vita selvaggio, nell’accezione più ampia del termine, in luoghi inospitali e desolati.

Non ci sono più terre inesplorate sul globo, oggi che un aereo o un cavo telefonico possono proiettarci in tempi brevissimi, proprio in quei luoghi che fino a pochi decenni fa potevano essere raggiunti solo con lunghi viaggi e mille peripezie.
Eppure vi sono luoghi che, nonostante l’urbanizzazione del terzo millennio, mantengono inalterati o quasi il loro carattere di terre di confine; paesi dove gli spazi sono così sconfinati o difficilmente addomesticabili, che è possibile ancora chiudersi una porta alle spalle ed entrare in un’altra dimensione. Per alcuni è propriamente materiale, per altri spirituale.
Una dimensione sulle tracce di esploratori, cercatori d’oro, missionari, avventurieri, banditi o più semplicemente uomini in cerca di oblio o in fuga da qualcosa, spesso solo da se stessi e dalla loro vita.

Nel tempo, alcuni luoghi più di altri, hanno esercitato una sorta di malia fino al punto da diventare leggendari, smettere di essere luoghi fisici per acquistare nell’immaginario collettivo la personificazione di ultima frontiera: un luogo dove “perdersi” o “ritrovarsi”. Tra questi, alcune regioni dell’Africa e dell’Asia, l’outback australiano, la Patagonia; terre che hanno prodotto un incantesimo così forte su chi nel tempo vi ha messo piede, da costituire un richiamo irresistibile da cui non è più possibile staccarsi.

-"La Patagonia! È un'amante difficile. Lancia il suo incantesimo. Un'ammaliatrice! Ti stringe nelle sue braccia e non ti lascia più."-
Questo scriveva Bruce Chatwin in uno dei suoi libri più amati, aprendo così le porte a cento, mille altri viaggiatori: gente “dannata” alla ricerca di un ultimo Eldorado per l’uomo moderno o semplici turisti.
Ma quanta gente prima di lui, sconosciuta ai più, ha percorso le stesse carretere che si perdono nell’erba alta della pampa, calpestato le rive di lagune solitarie o bivaccato tra i boschi di faggio davanti ai seracchi di immensi ghiacciai?
La Patagonia ingoia tutto e non restituisce nulla, a volte solo storie e leggende, ricordi o antiche memorie che parlano di fame, paure, angosce e amori perduti, di cui Francisco Coloane e Luis Sepulveda sono mirabili cantastorie.

Nel sibilo incessante del vento che piega il mare d’erba, corrono i lamenti di uomini ed animali, uniti qui dalla stessa disumana solitudine. La malinconia canta su una chitarra le sue note struggenti, che nella notte non sai da dove vengono ne dove vanno. Proprio come gli uomini.


Giancarlo


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