© Giancarlo Guzzardi

venerdì 4 gennaio 2008

alma de Argentina

.
Il nome Argentina, dal latino plateada (che allude alla ricchezza attribuita dalla leggenda anche al fiume omonimo scoperto), lo usò per la prima volta il poeta Martín del Barco Centenera che nella sua opera: "Argentina e conquista del Rio della Plata (ed. Lisbona 1602) nella dedica dice "Questo trattato e libro lo intitolo all'Argentina dal nome del soggetto principale, che è il Rio della Plata"
Gli indigeni chiamavano questa terra: Paranà-Guazù, che significa: fiume-mare.
El nombre Argentina, del latín plateada (que alude a la riqueza atribuída por la leyenda al ancho río descubierto), lo usó por primera vez el poeta Martín del Barco Centenera en su obra: “Argentina y conquista del Río de la Plata" (Lisboa 1602), que en la dedicatoria dice: ”Este tratado y libro lo intitulo y nombro Argentina tomando el nombre del sujeto principal, que es el Río de la Plata”.
Los indígenas llamaban a estas tierras: Paraná–Guazú, que significaba: río con mar.

venerdì 12 ottobre 2007

il tragitto è tutto

Ci sono luoghi della mente, sospesi tra realtà e desiderio. Posti visitati, forse mai più rivisti o cercati e ritrovati, che in un modo o nell’altro trovano spazio nella mente e restano lì, in attesa, a volte per anni. Posti in cui si torna o si spera di tornare; comunque desiderati e che nel tempo diventano un simbolo in cui si catalizza tutto il resto dei pensieri e delle sensazioni. Luoghi ed emozioni interiori originati da un viaggio, un’esperienza, un evento, un incontro, più spesso semplicemente un ricordo, un ricordo di qualcosa che ci ha catturati ed è rimasto dentro di noi; un’immagine interiore come una visione impalpabile che ritorna nel tempo, alimentata da un odore, un taglio di luce, un suono, un particolare insignificante.
Un luogo non luogo, in cui la mèta del viaggio non ha importanza ed in cui il tragitto è tutto.

sabato 16 giugno 2007

La Boca, tango... and a story

Il quartiere più suggestivo di Buenos Aires nelle parole e nelle immagini di Silvia Marmori.

"I am Argentine… I was born at Quilmes, a city on the Rio de la Plata, one of widest river in the world; so when I watch it I imagine to be in front to the sea.. just I have seagulls and birds, green trees and dark sand.. salty smell from sweet waters… The breeze brings feelings.. the tango, from the suburbs of the near Buenos Aires, fulfil my soul with melancholy.. with the wishes, with the dreams of those that were.. of those that are.. maybe with the silent hope of those that will be... "

photo by Sabrina Gerbino

venerdì 25 maggio 2007

le Cascate Iguaçu, il tuono che fuma

Chi non ricorda la grande interpretazione di Robert De Niro nel film Mission, quando nel ruolo di un giovane e irruente hidalgo, gravato dall'immane peso di armi e peccati, tra spruzzi d'acqua, muschi e rocce viscide, sale una impossibile bastionata rocciosa che segnerà simbolicamente nel personaggio la sua morte e rinascita? Quel muro di rocce e di acqua erano nel film, e lo sono nella realtà, le cascate Iguacù: una barriera naturale tra l'altopiano amazzonico e il bacino del fiume Paranà.
Tra il 1608 ed il 1767 era questa terra di missioni, un lembo di territorio incuneato tra i fiumi Paranà ed Uruguay, dove missionari gesuiti, armati solo della fede e di un grande coraggio, tentarono un disperato "esperimento" con la creazione e organizzazione di comunità tra gli Indios Guaranì, per strappare questa gente all'umiliazione, alle razzie e alla brutalità dei regni di Spagna e Portogallo che si erano spartiti quei territori. Questo esperimento e le relative "reduciones", così furono chiamati i villaggi, ebbero un triste ed amaro epilogo. Il film ne ripercorre in sintesi le vicende.


Proprio gli Indios Guaranì tramandano una leggenda che racconta l'origine delle cascate. Questi indios, che ancora oggi lottano per sopravvivere sulle loro terre, considerano le cascate come opera del loro Dio Serpente, signore del mondo.
La leggenda narra di Naipi, la bellissima figlia di un capotribù, così bella da essere destinata ad essere sposa di M'Boy, il Dio Serpente e a servirlo in cambio di protezione, prosperità e ricchezza per l'intero villaggio. Ma l'amore scocca i suoi pericolosi strali anche nel riverbero verde della foresta pluviale, dove la bella Naipi si innamora perdutamente di un giovane guerriero. Rompendo il patto che la lega con devozione al dio, la giovane dagli occhi scuri e dai capelli colore del cocco, fugge con il suo amato nella selva, lungo il fiume. Quando Dio Serpente scopre il gesto di Naipi è travolto dall'ira e per vendicarsi con la sua enorme coda crea una spaccatura nella roccia, facendovi precipitare il fiume, insieme ai due giovani innamorati, trasformando così Naipi in una roccia ai piedi della cascata ed il suo innamorato in una palma sospesa per sempre sul bordo dell'abisso.



Per la geologia la morfogenesi delle cascate è meno romantica: 120 milioni di anni fa, nel Cretaceo, lo scoscendimento fu originato dall’apertura di una larga e profonda fenditura nella crosta terreste. Le imponenti cascate sono invece costituite dalla confluenza del Rio Paranà con il Rio Iguacù. Quest’ultimo, dopo aver percorso centinaia di chilometri nell'impenetrabile selva, si apre in un ampio semicerchio gettandosi nel vuoto, formando circa 350 salti d’acqua, con una portata di 1550 metri cubi al secondo, prima di ricongiungersi al Rio Paranà. Qui, tra arcobaleni, grandi farfalle multicolori e una fitta vegetazione, il fiume largo circa quattro chilometri, continua la sua placida discesa verso il mare.
giancarlo

sabato 5 maggio 2007

Penisola Valdes, Chubut

Un lembo di deserto che affaccia sui flutti dell’Atlantico e precipita nelle onde oceaniche, fra ripide scogliere popolate da colonie di leoni ed elefanti marini. Poco più a sud, il silenzioso passaggio delle balene franco-australi.




Nel cielo tempestoso, tra le nuvole gonfie di pioggia, il volo maestoso degli ultimi condor.

Giancarlo

martedì 24 aprile 2007

Odori

I miei ricordi sono legati alle percezioni più che alle immagini, a volte possono diventare odori, altre colori o sapori. È sempre stato cosi, non sono molto fisionomista, spesso dimentico il volto ma raramente il profumo di una persona. Anche per i paesaggi è cosi, dimentico facilmente nomi e date, ma non scordo quasi mai l’odore che ho sentito arrivando per la prima volta in posto, i colori, il sapore di una nuova cucina, l’impressione ricevuta da genti nuove incontrate.

Buenos Aires è una grande città e porta con se tutti gli odori e i rumori tipici di una metropoli, ma camminando per le vie al mattino presto, il silenzio prende il posto del rumore e gli odori sono quelli del pane caldo, di dulce de lece, di fuoco e legna bruciata.

Ad Ushuaia c’è odore di mare, il vento profuma di freddo, di umido e terra dei boschi circostanti; i sapori sanno di pesca, di sale e brodo caldo. Un poco più su, quando incontri i ghiacciai, ti accorgi che anche il ghiaccio ha un suo profumo, secco e pungente ed il silenzio è intervallato dai boati assordanti causati dal ghiaccio che si spacca per tornare a fluire nell’acqua.

In Patagonia, e in Argentina in genere, l’odore di legna bruciata e carne arrosto è il sottofondo naturale del viaggio, sempre presente; assume sfumature di volta in volta diverse mescolandosi al profumo del mare, del bestiame e dei mandriani. Ed ancora più a nord il vapore delle cascate trasporta anch’esso odore di muschio, fiori, terra bruciata ed ancora legna e carne alla brace, mescolati ad un effluvio dolciastro che sa di frutta tropicale. E così gli uomini; profumano di sigaro, cenere, dulce de lece, carne arrosto, pesce e sale, cavalli e pecore, a seconda di dove si trovino e che vita facciano. Può sembrare sgradevole, ma nell’insieme è un odore indimenticabile.
Sabrina Gerbino

venerdì 20 aprile 2007

Il popolo Mapuche


giovedì 19 aprile 2007

Falò e grandi piedi

.

Si è dissertato a lungo anche sull’origine del nome Patagonia, ma ogni argomentazione resta semplice supposizione. Forse è stato lo stesso Magellano a chiamare questi indios Patagònes, cioè uomini dai grandi piedi, anche se l’etimo del nome è incerto; ma considerando quando descritto da altri esploratori dopo di lui, la struttura e la possanza fisica di questa razza, con una statura media sul metro e ottanta di altezza, si può rilevare di non essere di fronte solo a dicerie senza fondamento, quando ancora per gli europei il mondo oltre le colonne d’Ercole era un territorio non ben definito popolato da mostri, draghi e strane creature marine. D'altronde proprio nel XVI secolo alcuni romanzi cavallereschi si soffermano sulla figura di una creatura mostruosa chiamata Grand Patagon. Il termine del greco antico patagòs, che suonerebbe come “muggito” o stridore di denti, potrebbe collegarsi invece all’idioma di queste popolazioni, carico di suoni duri o piuttosto a comportamenti e a mimiche facciali particolari.




Lola Loij, la última Ona, en 1923. Falleció en 1974.
Con ella desapareció de la tierra un pueblo ancestral.


Giancarlo
Si ringrazia la Casilla do Sur per le immagini d'archivio

mercoledì 18 aprile 2007

Desaparecidos antelitteram

Nelle cronache dei primi esploratori la Terra del Fuoco veniva descritta come un luogo desolato ed inospitale abitato da selvaggi cannibali, di cui si metteva in dubbio anche l’appartenenza alla razza umana. Le tribù con cui gli europei ebbero il loro primo approccio erano quelle degli Ona, degli Yaghan, degli Alakaluf, discendenti delle popolazioni asiatiche che nell’ultima glaciazione avevano attraversato lo Stretto di Bering e nel corso dei millenni si erano spinte sempre più a sud, fino a raggiungere l’estremo lembo del continente americano.
Una razza forte, temprata dagli elementi della natura. Vivevano praticamente nudi, facendo uso solo di pellicce di animali selvatici che all’occorrenza fungevano da riparo, coperta o mantello. Probabilmente la vista lungo le coste scoscese dei falò con cui si scaldavano, concorse a creare il nome Terra del Fuoco. Tra gli anni venti e sessanta del ‘900 le statistiche descrivono queste tribù ormai prossime all’estinzione, prima che alcune epidemie di morbillo falciassero le vite delle ultime diecine di superstiti. Le malattie portate dall'uomo bianco, prima sconosciute a queste popolazioni e l'uso dell'alcool favorito da mercanti privi di scrupoli, contribuirono a segnare il destino di quanti erano sfuggiti ad una morte più violenta. Quello che resta oggi di queste popolazioni, sono solo discendenti di sangue misto.



segue

si ringrazia Casilla do Sur per le immagini d'archivio

martedì 17 aprile 2007

Gli Indios patagonici

Nell’intera Patagonia argentina erano presenti numerose popolazioni aborigene, tra cui i Mapuche, i Tehuelche, gli Ona, gli Haush, gli Alakaluf, gli Yamana, per parlare dei ceppi più importanti per consistenza numerica. Gran parte di queste etnie oggi non esistono più, gli ultimi sopravvissuti in cattività, abbrutiti dalla fame, dalle malattie e ridotti ad ombre di se stessi, sono morti a meta del ‘900. Di loro restano solo fotografie e qualche cimelio, raccolti da esploratori che si erano spinti a queste latitudini con una diversa indole.
Sopravvivono oggi solo discendenti dei Tehuelche ed i Mapuche, nelle aree più a nord della Patagonia, perchè a soccombere sono state proprio le tribù che abitavano le terre a ridosso dello Stretto di Magellano e della Terra del Fuoco, dove la natura inospitale rendeva il tenore di vita già duro di per se.


.

visita il sito sui Popoli della Terra


Giancarlo

si ringrazia Casilla do Sur per le immagini d'archivio

segue

lunedì 16 aprile 2007

L'Indio muore

“L’Indio muore” è un libro di Maurizio Leigheb uscito alla fine degli anni 70; una lucida analisi sulla condizione degli indios sudamericani, su cui all’epoca incombeva la minaccia di estinzione. A trent’anni di distanza, lungi dall’essere rientrato il rischio, queste popolazioni si dibattono tra l’eliminazione materiale dai territori in cui vivono e lo snaturamento d’identità in seguito all’approccio sempre più oppressivo e violento del “mondo civile”.
Tutto sommato queste popolazioni nella loro tragedia hanno goduto la fortuna di avere i riflettori di una parte del mondo occidentale puntati su di loro, quella di associazioni e ricercatori la cui vita è spesa nell’azione per la salvaguardia delle minoranze etniche.
Per lo più di popolazioni e tribù sparse nell’immensa selva amazzonica e Mato grosso si tratta, la cui odissea di sopravvivenza è iniziata ai tempi in cui queste regioni divennero colonie sotto il dominio delle corone di Spagna, Olanda, Portogallo, e non si è mai conclusa. Territori da saccheggiare in nome di altri dei, altre economie, altre civiltà.

Ma di altre culture già scomparse o in agonia, sterminate dalla presenza dell’uomo bianco, poco o nulla si è parlato. Tra le tante etnie sparse nelle selve, nei deserti e nelle savane dei cinque continenti, sicuramente un posto a se meritano gli indios patagonici, cancellati sulle loro terre già alla metà dell’800 e di cui solo pochi esploratori hanno potuto raccogliere testimonianze. Il paradosso è che queste popolazioni sono state annientate da altre popolazioni fuggiasche. Perché i coloni, sotto i cui colpi di carabina gli ultimi indios patagonici hanno finito i loro giorni, erano personaggi approdati su queste terre alla ricerca di lavoro, di fortuna, di salvezza, fuggiti dai loro paesi a causa di guerre, carestie, persecuzioni.
L’esistenza di grandi estensioni di territori scarsamente abitati (le popolazioni autoctone non rientravano in nessuna valutazione!) accendevano la speranza uomini in cerca di sopravvivenza e spingevano i governi ad offrire facile asilo a chiunque avesse voglia di colonizzare quelle solitudini. E i coloni arrivavano, spinti dalle difficoltà economiche e dai contrasti politici dei rispettivi paesi: immigrati tedeschi e svizzeri nell’area di Bariloche, inglesi e scozzesi nella provincia di Santa Cruz, gallesi, slavi e russi in quella di Chubut. Nella valle del Rio Negro s’insediarono invece italiani e spagnoli, mentre nel nord della Patagonia arrivarono i libanesi.
segue
Giancarlo

mercoledì 4 aprile 2007

Un ricordo intenso

Durante il mio viaggio in Argentina ho bevuto il màte due volte. È stato stranissimo: due esperienze completamente diverse.
La prima vola che ho incontrato la “zucca” ero sul pulmino che mi portava a Punta Tombo per vedere i pinguini. Pur non soffrendo il mal d’auto, tre ore di sterrato in mezzo al nulla incominciavano a minare il mio stomaco. L’autista e il suo assistente stavano preparando il màte; incredibile come riescano a non versarsi addosso l’acqua bollente e a bere màte in qualsiasi momento! Forse il pallore della mia faccia o la curiosità con cui li guardavo hanno fatto il resto: due minuti dopo stavo bevendo da una zucca una strana bevanda amara e, con tutto il rispetto, non troppo gradevole, utilizzando una strana cannuccia comunitaria.
Non ho chiesto molto su questa tradizione, ma mi sentivo parte di un rituale “diverso”, o forse così mi piaceva pensare. La cosa più strana erano le facce degli altri viaggiatori, quasi tutti schifati, ma a dire il vero in quel momento è stata l’ultima cosa a cui ho pensato.


Forse la prima volta non si scorda mai, ma in questo caso non dimenticherò neppure la seconda. Ero alle cascate di Iguazù, sul lato argentino e pioveva come non avevo mai visto in vita mia. La maggior parte dei turisti se ne stava rintanata nei bar, ma siccome l’acqua è il mio elemento, con un sano pizzico di incoscienza mi aggiravo nel parco, su e giù per le passerelle vuote e scivolose. Ormai ero talmente bagnata che ripararmi non sarebbe servito a nulla.
Seduta su una passerella con i piedi penzoloni nel vuoto, contemplavo le cascate: riescono ad essere incredibili anche in un giorno cosi inclemente! All’improvviso mi sento chiamare, mi volto ed un gruppetto di guide del parco, in pausa forzata, mi offrono un sorso della loro mistura.
Sarà stato il freddo, la pioggia o la vicinanza del caldo Brasile, ma quel màte risultava essere completamente diverso da quello assaggiato a Punta Tombo: era dolciastro, con un retrogusto di frutta.

In definitiva non posso dire che il màte sia stata la cosa più gradevole che abbia gustato in Argentina, ma sicuramente è uno dei ricordi più intensi che ho di questo paese.
Sabrina
Gerbino

venerdì 30 marzo 2007

Yerba màte

Diverse sono le particolarità che caratterizzano l’Argentina e le comunità di argentini nel mondo, dalla passione per il gioco del calcio, all’asado, al tango; ma nessuna di queste riveste un ruolo così profondamente radicato nella vita sociale e nella cultura di questo popolo, come quella di preparare e sorbire il màte, in compagnia o nell’intimità di una casa, sul posto di lavoro o dovunque si trovino.
Màte deriva dal vocabolo quetchua “mati”, che vuol dire zucca e furono gli spagnoli a chiamare in questo modo la bevanda che presso i nativi era conosciuta con il nome di “caiguá”, mistura di “yerba”.
Secondo una antica leggenda degli indios Guaranì, le proprietà terapeutiche del màte sarebbero state manifestate loro direttamente da un dio. Gli indios si sarebbero stabiliti nelle foreste del Paraguay provenienti da un luogo situato oltre l’oceano. In questa nuova terra promessa il dio Pa’i Shume, alto, con gli occhi azzurri e la barba dorata, sarebbe sceso dal cielo per impartire al popolo gli insegnamenti religiosi e rivelare le qualità benefiche delle piante, in particolar modo della yerba màte. Pare che il màte sia una pianta con un alto potere nutrizionale, costituito dalla presenza di molte tra le vitamine necessarie all’organismo umano. In particolare una sostanza, nota col nome di “mateina”, sembra renderlo un efficace sostituto del tè e caffè, con ottimi risultati sul metabolismo umano. Nel territorio andino a cavallo tra Cile e Argentina, dove è oltremodo conosciuto ed usato seppur in misura modesta, il màte è considerato un eccellente rimedio per il soròche, il mal di montagna.


Oggi la zucca tradizionale è stata sostituita da moderni contenitori dai materiali più vari che, insieme alla bombilla, la cannuccia con filtro con il quale viene sorbito, costituiscono un utensile quotidiano dal quale un vero argentino non si allontana mai. La preparazione della bevanda e i suoi ingredienti sono semplicissimi: acqua ben calda e foglie di mate sminuzzate. In alcuni casi si aggiunge zucchero, anche se la tradizione vuole venga bevuto amargo.

Il màte è una bevanda conviviale, perché spesso consumata in compagnia. In qualunque contesto ci si trovi, da quello familiare a quello lavorativo o di svago, il rituale è tornarse en ronda: una sola “zucca” passata fra i presenti, che bevono a turno usando la stessa bombilla.

Le latitudini cambiano, ma i rituali nei quali le comunità, specie in un contesto di vita ardua, ritrovano la loro coesione, è identica.... in ogni sud del monto.


Giancarlo

lunedì 26 marzo 2007

Glaciar Moreno, Parco de Los Glaciares



Una dozzina di ghiacciai affacciano sul Lago Argentino, tentacoli della vasta calotta glaciale dello Hielo Sur Patagonico. E' questa la zona de Los Glaciares, il parco dei ghiacciai.




Sulle acque immobili del lago si riflettono le nuvole basse e gonfie che transitano nel cielo spinte dal vento patagonico, mentre iceberg simili a velieri senza timoniere vagano sulla superficie immobile dell'acqua con la loro tozza mole che nella luce diafana del giorno si accende di riflessi sempre cangianti, blu, verde, rosa.



Il Glaciar Moreno, il più fantasmagorico tra i ghiacciai, incide il panorama di morbide colline ricoperte di boschi, come un immenso fiume paralizzato nella morsa del gelo. La sua fronte, vero e proprio sbarramento di ghiacci, ha l’aspetto di una bizzarra fortificazione punteggiata di guglie e pinnacoli che si curvano, si contorcono, per franare poi rumorosamente nelle acque del lago, rompendo il silenzio irreale del luogo.

lunedì 19 marzo 2007

Agua

L’acqua è il mio elemento ed inconsapevolmente ha accompagnato questo mio cammino in Argentina. Fin dall’arrivo a Buenos Aires, nell’incontro col grande fiume, su cui la vita scorre lenta seguendo il ritmo delle piene. Poi l’incontro con il delta, dove due mondi cosi diversi, ma regolati dallo stesso unico elemento, formano un paesaggio straordinario.

In Patagonia è ancora acqua, quella che forma il Lago Argentino, che da vita ad incredibili ghiacciai che lentamente modellano il paesaggio. Acqua che si crea dallo scioglimento dei ghiacciai e che a sua volta forma torrenti turbinosi che tornano ancora al grande lago.

I pinguini, le balene ed i leoni marini. Acqua è il loro elemento naturale, salata certo, ma sempre acqua. E’ incredibile come una balena riesca a nuotare con grazie e leggerezza. I Pinguini, cosi goffi nel camminare, nell’acqua si tuffano e letteralmente volano. Una metafora abusata questa, ma quando vedi un pinguino tuffarsi nell’acqua non puoi non invidiarli. Riescono a vivere in due ambienti completamente diversi e a loro modo li dominano entrambi. Ed i Leoni marini, pesanti e sgraziati nel vederli crogiolarsi al sole sugli isolotti rocciosi, in acqua scivolano come se non avessero peso.


Alla fine del viaggio le cascate. E’ inconcepibile pensare che si tratta dello stesso maestoso fiume di Buenos Aires; il paesaggio intorno è avvolto in una nuvola di vapore e il rumore diventa cosi assordante da mutarsi in silenzio. Osservando le cascate dalle passerelle, dai sentieri o da qualsiasi percorso tu scelga, il rumore ed il vapore ti avvolgono in un tale frastuono che non riesci ad avvertire neanche più i tuoi pensieri, l’acqua li trascina via.

Adesso vorrei essere li, nel rumore e nel vapore: l’acqua trascinerebbe via i miei pensieri, giù fino al mare.
Sabrina Gerbino

giovedì 15 marzo 2007

Gauchos

"Come potevano sapere che i loro antenati
erano venuti su un mare,
come potevano sapere cosa sono un mare
e le sue acque.
Meticci dell'uomo bianco, lo stimarono poco,
meticci dell'uomo rosso gli furono nemici.
Molti di essi non avranno mai udito
la parola "gaucho"o l'avranno sentita come un'ingiuria.
Impararono le vie delle stelle,
le usanze del vento e dell'uccello,
le profezie delle nubi del Sude della luna alonata.
Furono pastori di bestie selvagge,
saldi sul cavallo del deserto, domato al mattino,
veloci a prendere il lazo,
marchiatori, mandriani, capiguardiani,
talvolta banditi,
qualcuno, quello che si ascoltava fu il payador.
Cantava senza fretta, perché l'alba tarda
a far chiaro,
e non alzava la voce."
Jorge Luis Borges

lunedì 12 marzo 2007

Punta Tombo, Chubut

Mare, rocce e cespugli spinosi. In mezzo a questo paesaggio arido vivono centinaia di pinguini di Magellano.




E’ finita la stagione degli amori; all’interno delle tane scavate nella terra, sotto i cespugli, le femmine covano le uova deposte qualche settimana prima.

venerdì 9 marzo 2007

Lago Argentino, Santa Cruz

Un'emozione profonda vissuta in silenzio e in solitudine


Non sempre ricordo l’emozione provata osservando un paesaggio, ma per il lago Argentino è diverso, ricordo esattamente cosa ho provato quando ho visto per la prima volta questo lago ed i suoi ghiacciai.
Lo ricordo bene perché ho pianto. E non è difficile da spiegare, perché in realtà il motivo è di una semplicità banale: come fai a vedere un posto cosi e a rimanere impassibile? Ti commuove, ti cambia, ti coinvolge, non riesci a guardarlo e basta!


Il lago è un posto strano, mostra contemporaneamente il lato tenero e quello duro della Patagonia. La durezza dei ghiacciai è mitigata dalla presenza del bosco tutt’intorno e da altre piante isolate, incredibili piccoli arbusti che crescono nonostante il clima rude, il freddo, il vento, la neve.


Sabrina

martedì 6 marzo 2007

Alla deriva. Lago Argentino, Santa Cruz

.

“Dalla gente del Sud del mondo ho imparato che la tenerezza bisogna proteggerla con la durezza e che il dolore non può paralizzarci.”
Sepulveda, Le rose di Atacama

giovedì 1 marzo 2007