© Giancarlo Guzzardi

venerdì 23 febbraio 2007

Il cuore in Patagonia

A volte si è affranti, per come tanti luoghi con il passare del tempo siano rimasti stravolti dal turismo. Ma non è proprio così, le folle si accalcano sempre negli stessi posti, lì dove ci sono cose attraenti: grandi alberghi, negozi, fast food e altri confort per l'uomo moderno.
Perchè spesso basta svoltare l'angolo, allontanarsi un pò, per ritrovare il silenzio e la solitudine (questo vale in capo al mondo quanto nelle nostre località). Certo, alle latitudini della Terra del Fuoco, svoltare l'angolo vuol dire davvero wilderness!
Ma le sensazioni e le emozioni non si possono catalogare, mettere in fila, etichettare; non hanno un punto di inizio ne una fine... ed allora si mescolano, si confondono, si sovrappongono, prima e dopo "un viaggio".... e così il viaggio inizia prima, molto prima di chiudersi la porta di casa dietro le spalle. Il viaggio ha inizio e prosegue nella testa, lo vivi prima ancora di effettuarlo. Il viaggio ha un "senso" diverso, se sai viaggiare con la mente.
Entrare in sintonia con un luogo, con una cultura, con tradizioni e costumi diversi è semplicemente un fatto di emozioni. C'è un flusso di vibrazioni scambiate con la realtà che ci circonda, sempre, in ogni momento: riceviamo e a nostra volta emettiamo vibrazioni. La realtà, così come la percepiamo, è una somma di ciò che noi esprimiamo ed impressioni che ne riceviamo.

Così è nel viaggio
.
Giancarlo

Fin del mundo

“Ho lasciato Buenos Aires e sto finalmente arrivando nella città più australe del mondo.. la fine del mondo. L’aereo fa un rumore da paura; guardo una carta geografica e cerco di capire dove sto andando. Veramente sarà "la fine del mondo"? Mi guardo intorno: i posti sono al completo e dai visi delle persone traspare che quasi tutti sono turisti. Credo di essere una delle poche con scarponi e zaino al seguito. Questo viaggio non mi convince: non ho voglia di grandi alberghi e tour operator. Speriamo bene.




-“Mi aspettavo un freddo polare ma cosi non è, anzi si sta decisamente bene.”- Ma il giorno dopo avrei sperimentato la differenza tra una giornata ventosa ed una no!
Di primo acchito Ushuaia delude, è una città senza una identità precisa: turisti dappertutto, negozi allineati lungo l’unica via, come nei nostri posti di mare in estate, solo che qui si è nella punta estrema del mondo. Poi pian piano scopro come è nata la città, la sua storia e quella della colonia penale che qui aveva dimora.




Visito il Parco Nazionale Tierra del Fuego arrancando dietro la guida ed incredibilmente ad ogni passo non faccio che domandarmi -“Ma in Patagonia ci sono gli alberi?!”-. Eh già, perchè la mia immagine della Patagonia era solo arbusti bassi, erba e pecore. Invece intorno a me c’è un mondo di alberi, baie, acqua e animali, che so che ci sono ma non riesco a scorgere nel bosco.





Solo quando lascio andare la mente, senza pensare a dove sono e a come ci sono arrivata -perché quando nei tuoi sogni d’avventura pensi di arrivare in un luogo, è in treno, a piedi, insomma con certo impegno!-, allora sì, sento di essere… alla fine del mondo.
Cammino, cammino soltanto in mezzo al bosco e ne avverto la fatica.”

Sabrina Gerbino




giovedì 22 febbraio 2007

Solitudini australi

Rileggo un passo di un’opera di Erick Fromm -“(…) il senso di solitudine, d'impotenza di fronte alle forze della natura e della società, possono rendergli insopportabile l'esistenza. Diventerebbe pazzo se non riuscisse a rompere l'isolamento, a unirsi agli altri uomini, al mondo esterno.
Il senso di solitudine provoca l'ansia, anzi è l'origine di ogni ansia. Essere soli significa essere indifesi, incapaci di penetrare attivamente nel mondo che ci circonda.
Questo profondo bisogno dell'uomo dunque, è il bisogno di superare l'isolamento, di evadere dalla prigione della propria solitudine.
L'impossibilità di raggiungere questo scopo porta alla pazzia
.”-

Eppure vi sono uomini… e donne, che paradossalmente cercano questo isolamento, questa solitudine così dirompente. Nel loro animo c’è una smania di uscire proprio dal mondo, dal contesto conosciuto, dal ritmo di vita imposto dalla società. Un bisogno impellente che a volte può trovare giustificazione solo in un richiamo ancestrale di spazi incontaminati ed orizzonti sconfinati. In questo essi cercano di seppellire tutto ciò che li lega al proprio passato e ad ogni legame sociale ed umano, arrivando a volte ad abbracciare uno stile di vita selvaggio, nell’accezione più ampia del termine, in luoghi inospitali e desolati.

Non ci sono più terre inesplorate sul globo, oggi che un aereo o un cavo telefonico possono proiettarci in tempi brevissimi, proprio in quei luoghi che fino a pochi decenni fa potevano essere raggiunti solo con lunghi viaggi e mille peripezie.
Eppure vi sono luoghi che, nonostante l’urbanizzazione del terzo millennio, mantengono inalterati o quasi il loro carattere di terre di confine; paesi dove gli spazi sono così sconfinati o difficilmente addomesticabili, che è possibile ancora chiudersi una porta alle spalle ed entrare in un’altra dimensione. Per alcuni è propriamente materiale, per altri spirituale.
Una dimensione sulle tracce di esploratori, cercatori d’oro, missionari, avventurieri, banditi o più semplicemente uomini in cerca di oblio o in fuga da qualcosa, spesso solo da se stessi e dalla loro vita.

Nel tempo, alcuni luoghi più di altri, hanno esercitato una sorta di malia fino al punto da diventare leggendari, smettere di essere luoghi fisici per acquistare nell’immaginario collettivo la personificazione di ultima frontiera: un luogo dove “perdersi” o “ritrovarsi”. Tra questi, alcune regioni dell’Africa e dell’Asia, l’outback australiano, la Patagonia; terre che hanno prodotto un incantesimo così forte su chi nel tempo vi ha messo piede, da costituire un richiamo irresistibile da cui non è più possibile staccarsi.

-"La Patagonia! È un'amante difficile. Lancia il suo incantesimo. Un'ammaliatrice! Ti stringe nelle sue braccia e non ti lascia più."-
Questo scriveva Bruce Chatwin in uno dei suoi libri più amati, aprendo così le porte a cento, mille altri viaggiatori: gente “dannata” alla ricerca di un ultimo Eldorado per l’uomo moderno o semplici turisti.
Ma quanta gente prima di lui, sconosciuta ai più, ha percorso le stesse carretere che si perdono nell’erba alta della pampa, calpestato le rive di lagune solitarie o bivaccato tra i boschi di faggio davanti ai seracchi di immensi ghiacciai?
La Patagonia ingoia tutto e non restituisce nulla, a volte solo storie e leggende, ricordi o antiche memorie che parlano di fame, paure, angosce e amori perduti, di cui Francisco Coloane e Luis Sepulveda sono mirabili cantastorie.

Nel sibilo incessante del vento che piega il mare d’erba, corrono i lamenti di uomini ed animali, uniti qui dalla stessa disumana solitudine. La malinconia canta su una chitarra le sue note struggenti, che nella notte non sai da dove vengono ne dove vanno. Proprio come gli uomini.


Giancarlo


lunedì 19 febbraio 2007

El viaje

Quando percorriamo un sentiero -non necessariamente quando siamo in viaggio-, ci sono cose che più di altre ci colpiscono e ci restano dentro, che non si possono raccontare ne descrivere. Impossibile condividerle con gli altri, sono troppo personali nella varietà di ciò che esprimono.

La parte più profonda di un'esperienza sono le emozioni e le vibrazioni che riceviamo; continuano ad accompagnarci nel tempo anche quando le immagini che conserviamo di essa si sbiadiscono pian piano. Basta un suono, un odore, una luce, una sensazione inattesa, per riportarle a galla e ritrovare quella stessa atmosfera.

Ma l'esperienza di un Viaggio può spingersi oltre: può cambiarti; può cambiarti nell'anima, può cambiarti la vita. In particolar modo quando questa esperienza la vivi in solitudine o, come sarebbe più giusto dire, in solitaria.

Se hai la forza o l'opportunità di vivere da solo un viaggio fisico, come un viaggio interiore, sai bene che ben poco di questa esperienza potrai condividere con gli altri. Certo ci sono le parole, le immagini, c'è la penna od un pennello pronti a descrivere, ma quello che potrai fermare di quel turbinio di visioni, è solo la punta di un iceberg. La parte sommersa non si vede mai.

Mi piace qui ricordare, ancora una volta, un pensiero di Shopenauer: "I pensieri messi per iscritto non sono nulla di più che la traccia di un viandante nella sabbia: si vede bene che strada ha preso, ma per sapere che cosa ha visto durante il cammino bisogna far uso dei suoi occhi."
Giancarlo



venerdì 16 febbraio 2007

Memorias de un rìo

Il Rio della Plata è una distesa enorme, specie in prossimità del suo delta, dove non si riesce a capire quando finisce il fiume vero e proprio e cominciano le acque del Mar del Plata. L’acqua ha un colore a volte verdastro altre rossa, ma sempre torbida, per via della gran quantità di terra ed altro materiale eroso che viene trasportata dal fiume. Questa torbidezza nasconde non solo la morte lenta della sua vita animale e vegetale, ormai allo stremo per l’azione dell’inquinamento, ma anche tanti episodi di cui nel corso dei secoli è stato muto testimone.



A me il nome di questo fiume-mare ha fatto venire in mente due cose distinte: una riguarda vicende reali e purtroppo recenti di questo paese, martoriato nella sua storia politica ed umana come tutti quelli dell’America Latina; l’altra un episodio che, se pur raccontato in un romanzo, all’epoca evocava un’altra pagina triste delle genti che si sono avvicendate su questi orizzonti.






Negli anni ’80 del novecento tra le brutture che hanno trovato testimonianza sui mass media di tutti i paesi del mondo, c’è stata quella dei “desaparecidos”, le migliaia di persone scomparse durante la brutale dittatura argentina. Quando scorrevo quelle righe, la notizia dei giovani studenti, operai, sindacalisti, gente comune, buttati vivi dagli aguzzini del regime dall’alto dagli aerei in volo su quell’acqua, mi colpiva con una fitta al cuore, più di ogni altra terrificante descrizione di tortura e sevizie di cui le dittature in questo continente si sono macchiate (i boia della dittatura di Pinochet in Cile, pensavano in grande: preferivano le onde dell’Oceano Pacifico!).
Così scorrevo queste righe ed immaginavo queste persone, questi ragazzi distrutti nel corpo e nell’anima; vedevo i loro sguardi inebetiti dalla droga somministratagli, mentre vivevano i loro ultimi attimi di vita, stretti l’uno contro l’altro lungo le pareti di freddo metallo degli aerei, prima che una mano assassina li precipitasse nell’abisso. Ma il loro soffio vitale era stato già loro strappato, mentre venivano portati via dalle famiglie, dai loro cari, dagli amici, dai loro amori. Le loro mani, strette le une nelle altre, a cercare una risposta ad uno stupore che gli sarebbe stata negata per sempre.



Nel racconto Dagli Appennini alle Ande, queste acque, le pianure desolate e gli orizzonti sconfinati di questo paese, ugualmente fanno da sfondo alla vicenda di Marco, un bambino partito da Genova alla ricerca della mamma scomparsa. Egli nel libro racconta di un viaggio sul fiume Paranà (che chiamare affluente del Plata è un eufemismo): “Partirono, e il viaggio durò tre giorni e quattro notti, su quel meraviglioso fiume Paranà”. Così prova meraviglia quando naviga sul Rio della Plata, prima di mettere piede a Buenos Aires, per lui città infinita.

Queste le memorie affidate alle acque che ancora oggi dividono due nazioni, due porti, due capitali, ma non le popolazioni, che hanno la stessa lingua, gli stessi tratti somatici, le stesse tradizioni.

Ma i bambini oggi leggono ancora Dagli Appennini alle Alpi?...e i più grandicelli, sapranno mai chi erano Peròn e Pinochet?

Giancarlo
© images Sabrina Gerbino

giovedì 15 febbraio 2007

La revancha del Tango

Il Tango argentino é una danza di coppia nata a Buenos Aires alla fine del 1800.
Musica e danza, in un caleidoscopio di ritmi, melodie struggenti, poesia e ballo sono nate in un periodo di grande immigrazione in questa terra, dal miscuglio di diverse culture, africana, italiana, tedesca, francese, insieme a quelle autoctone.


Il Tango è una danza popolare dove l’improvvisazione, tra ruolo maschile e femminile in un gioco estremamente seduttivo, è l’elemento fondamentale. La sua complessità, ma anche il suo immenso fascino, derivano proprio dalla variazione infinita di passi e sequenze, eseguibili dalla coppia che conosce non tanto una coreografia, quanto il modo del comunicare non verbale. E’ un dialogo costante fra i corpi in cui il contatto è fisico ma non volgare. I due ballano sapendo che tutto ciò che proveranno finirà quando finirà il tango.








Scrive Marco Castellani, storico del Tango: -“(…) Oggi, come cento anni fa, un uomo e una donna si avvinghiano stretti per camminare insieme lungo una vita concentrata in tre minuti. Questi due loro corpi uniti esprimono la necessità dell’abbraccio, la necessità di non rimanere soli, di scappare dai venti di guerra, dalla schiavitù, dalla miseria, dal dolore e dall’impotenza a cambiare il proprio destino.”-

© images by Sabrina Gerbino

mercoledì 14 febbraio 2007

Los colores do Caminito

La Boca è il quartiere più popolare della città, sede dell' amatissima squadra di calcio "Boca Juniors" e del suo stadio. Nostalgico e pittoresco, è un quartiere di pescatori dove si respira aria italiana. Con le case dipinte a colori caldi e vivaci, i marciapiedi e le strade lastricate, questo angolo della città, sul fiume Riachuelo, conserva un'atmosfera tutta mediterranea.
Qui c'è una stradina di poche centinaia di metri, diventata col tempo un museo a cielo aperto, il Caminito, un luogo dove il tempo si è fermato. Primo museo pedonale al mondo, offre una esposizione permanente di opere d'arte e sculture di artisti argentini e stranieri.

Negli anni '50 del novecento Arturo Cárrega decise di recuperare il terreno dove scorreva un angusto ruscello. Convocò il pittore Quinquela Martín, che chiamò la strada “Caminito”, dal titolo del popolare tango di Peñalosa e Filiberto lanciato nel 1926. Alla strada si aggiunsero successivamente le donazioni di vari artisti e nel 1959 Caminito fu convertito in un museo a cielo aperto e senza porte.



© images Sabrina Gerbino

lunedì 12 febbraio 2007

Buenos Aires: non sembra America Latina

La prima cosa che ricordo del mio viaggio in Argentina è l’arrivo a Buenos Aires.
Dopo 14 ore di volo su un traballante aereo della Aerolineas Argentinas, anche se non sei un patito dell’igiene non vedi l’ora di lavarti. Ma dato il fuso orario i voli dall’Europa atterrano alle 6 del mattino e a quell’ora neppure la più squallida pensione argentina è disposta a darti una camera.

Allora ti aggiri per la città come uno zombi, ma almeno lo zaino da 35 chili è in albergo. Ho gli scarponi ai piedi, non sono riuscita ad infilarli in nessuna valigia ed ora il caldo della città incomincia a salire, proprio dai marciapiedi.

La città si sveglia con i lavori più assurdi: per strada chi pulisce le cornette dei telefoni pubblici, chi vende caffé o acqua calda per il mate. Poi improvvisamente senti le strade che si animano, si riempiono di movimento e rumori, come se tutti uscissero di casa nello stesso momento.


Non sembra di essere in America Latina; le case parlano europeo, la gente parla più italiano che spagnolo. I barboni per strada: gli stessi di sempre, anche se qui sono tutti di origine cilena.
Ormai non ho più sonno e l’adrenalina avanza. Mi cambio e incomincio un giro.

So che non mi fermerò troppo, le città non fanno per me.
Chiamo un taxi e l’autista è italiano! Volevo vedere la Casa Rosada nella piazza dei desaparecido, un pezzo della triste storia argentina, ma l’autista mi dice che per capire l’anima triste dell’Argentina prima devo vedere la parte allegra, poi potrò capire quanto è triste Plaza de Mayo.


Cosi mi ritrovo alla Boca.
La Boca non è solo il quartiere di una grande città, è come se ne fosse il cuore, l’anima. Ci sono turisti dappertutto, ma se ti incammini verso il silenzio riesci a scoprire cosa vuol dire l’anima allegra dell’Argentina. Buenos Aires è una città enorme e come tutte le grandi città è ricca di contraddizioni. Ma la cosa che più ricordo sono i sorrisi della gente.


Sono rimasta a Buenos Aires tre giorni.
Una mattina ero in strada con una cartina della città: volevo prendere un autobus per arrivare al fiume Paranà e poi giù fino al Rio della Plata, ma non riuscivo ad orientarmi. Improvvisamente una coppia di anziani signori mi saluta, dicendo che in aereo erano seduti due file dietro di me (io ovviamente non li avevo notati!). Mi spiegano la strada da percorrere e mi offrono un caffè, mentre mi raccontano un pezzo della loro vita, in bilico tra Italia e Argentina.


Quando sono arrivata al fiume ho deciso di fare un giro in barca; sarà anche una cosa da turisti, ma come lo vedi un fiume grande quanto un mare, se non hai una barca?!
Ed è stato incredibile.


Sabrina Gerbino
© images Sabrina Gerbino

giovedì 8 febbraio 2007

Io ti ricordo sud

"Io ti ricordo Sud.
Io ti ricordo con la tua immagine selvatica e le tue stelle,
con il tuo silenzio completo come un cerchio che cresce
come un rigoroso e lento muschio.
Io ti ricordo così, esattamente fatto di acque dure,
perfettamente elaborato da radici segrete
che ti attraversano come un cielo terrestre.
Un poco deve riguardarti il rude legname dei tuoi boschi,
la fraganza di fibra che permane nel tuo largo cuore di solitudini
da cui van nascendo bastimenti e città.
E il vento, solo il vento a cui non importa niente e galoppa
portando assiderate storie di sangue e fantasmi.
L’ostinata presenza della pioggia
che danza acqua sola fino ad annegare l’aria.
Più a sud dell’inverno c’è la neve
che si ripete sempre inesauribile e sola.
Io ho nelle mie retine, io ricostruisco
i tuoi contorni di luce e di bufere,
e agli uomini che solo sanno del sole
gli do la tua geografia fatta a pezzi.
Io gli dico che vengo dalle tue spine dure
con un pugno di neve nelle mani
e un vento ribelle nei capelli.
Che nella tua crosta brina l’aratro si angoscia.
Che il cielo è un’immenso campanile
dove stanno i gabbiani e la grandine.
Che ci sono scogliere fatte da schiume
dove il mare scolpisce i suoi bramiti
e che nella luna giaciono i pirati
che non poterono penetrare le tue acque.
Che a volte rabbrividisce la tua pampa solitaria
quando passa un gregge di pecore e latrati,
dove gli astri sognano vicino all’alba
ascoltando canzoni di pioggie e ricordi.
Che dalla tua ampia finestra deborda il paesaggio
fino a dove mi avvicino per guardare gli uccelli.
Io ti ricordo così,
come una inumidita alberata,
come aggiungere alla pietra un più profondo silenzo
che spunta intatto tra alghe e gelidi meridiani.
Tutto è preparato come per un oblio
dal giorno in cui milioni di gocce sollevarono l’acqua.
Non manca nè la fugace presenza di soli e stagioni,
nè forse il tuo complicato puzzle di canali e rocce,
nè forse la tua architettura scoscesa e di orizzonti soli,
nè il cielo che ti sovrabbonda,
nè la bruma, nemica della luce.
Lì rimani, cadendo dalla carta,
battendo la più agreste argilla della mia infanzia,
sostenendo la tua lontananza come se fosse un’aria,
sempre nell’atto di aspettare rondini.
Io ti ricordo così,
come un regalo innecessario del sole."
*Rolando Càrdenas*