© Giancarlo Guzzardi

martedì 24 aprile 2007

Odori

I miei ricordi sono legati alle percezioni più che alle immagini, a volte possono diventare odori, altre colori o sapori. È sempre stato cosi, non sono molto fisionomista, spesso dimentico il volto ma raramente il profumo di una persona. Anche per i paesaggi è cosi, dimentico facilmente nomi e date, ma non scordo quasi mai l’odore che ho sentito arrivando per la prima volta in posto, i colori, il sapore di una nuova cucina, l’impressione ricevuta da genti nuove incontrate.

Buenos Aires è una grande città e porta con se tutti gli odori e i rumori tipici di una metropoli, ma camminando per le vie al mattino presto, il silenzio prende il posto del rumore e gli odori sono quelli del pane caldo, di dulce de lece, di fuoco e legna bruciata.

Ad Ushuaia c’è odore di mare, il vento profuma di freddo, di umido e terra dei boschi circostanti; i sapori sanno di pesca, di sale e brodo caldo. Un poco più su, quando incontri i ghiacciai, ti accorgi che anche il ghiaccio ha un suo profumo, secco e pungente ed il silenzio è intervallato dai boati assordanti causati dal ghiaccio che si spacca per tornare a fluire nell’acqua.

In Patagonia, e in Argentina in genere, l’odore di legna bruciata e carne arrosto è il sottofondo naturale del viaggio, sempre presente; assume sfumature di volta in volta diverse mescolandosi al profumo del mare, del bestiame e dei mandriani. Ed ancora più a nord il vapore delle cascate trasporta anch’esso odore di muschio, fiori, terra bruciata ed ancora legna e carne alla brace, mescolati ad un effluvio dolciastro che sa di frutta tropicale. E così gli uomini; profumano di sigaro, cenere, dulce de lece, carne arrosto, pesce e sale, cavalli e pecore, a seconda di dove si trovino e che vita facciano. Può sembrare sgradevole, ma nell’insieme è un odore indimenticabile.
Sabrina Gerbino

venerdì 20 aprile 2007

Il popolo Mapuche


giovedì 19 aprile 2007

Falò e grandi piedi

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Si è dissertato a lungo anche sull’origine del nome Patagonia, ma ogni argomentazione resta semplice supposizione. Forse è stato lo stesso Magellano a chiamare questi indios Patagònes, cioè uomini dai grandi piedi, anche se l’etimo del nome è incerto; ma considerando quando descritto da altri esploratori dopo di lui, la struttura e la possanza fisica di questa razza, con una statura media sul metro e ottanta di altezza, si può rilevare di non essere di fronte solo a dicerie senza fondamento, quando ancora per gli europei il mondo oltre le colonne d’Ercole era un territorio non ben definito popolato da mostri, draghi e strane creature marine. D'altronde proprio nel XVI secolo alcuni romanzi cavallereschi si soffermano sulla figura di una creatura mostruosa chiamata Grand Patagon. Il termine del greco antico patagòs, che suonerebbe come “muggito” o stridore di denti, potrebbe collegarsi invece all’idioma di queste popolazioni, carico di suoni duri o piuttosto a comportamenti e a mimiche facciali particolari.




Lola Loij, la última Ona, en 1923. Falleció en 1974.
Con ella desapareció de la tierra un pueblo ancestral.


Giancarlo
Si ringrazia la Casilla do Sur per le immagini d'archivio

mercoledì 18 aprile 2007

Desaparecidos antelitteram

Nelle cronache dei primi esploratori la Terra del Fuoco veniva descritta come un luogo desolato ed inospitale abitato da selvaggi cannibali, di cui si metteva in dubbio anche l’appartenenza alla razza umana. Le tribù con cui gli europei ebbero il loro primo approccio erano quelle degli Ona, degli Yaghan, degli Alakaluf, discendenti delle popolazioni asiatiche che nell’ultima glaciazione avevano attraversato lo Stretto di Bering e nel corso dei millenni si erano spinte sempre più a sud, fino a raggiungere l’estremo lembo del continente americano.
Una razza forte, temprata dagli elementi della natura. Vivevano praticamente nudi, facendo uso solo di pellicce di animali selvatici che all’occorrenza fungevano da riparo, coperta o mantello. Probabilmente la vista lungo le coste scoscese dei falò con cui si scaldavano, concorse a creare il nome Terra del Fuoco. Tra gli anni venti e sessanta del ‘900 le statistiche descrivono queste tribù ormai prossime all’estinzione, prima che alcune epidemie di morbillo falciassero le vite delle ultime diecine di superstiti. Le malattie portate dall'uomo bianco, prima sconosciute a queste popolazioni e l'uso dell'alcool favorito da mercanti privi di scrupoli, contribuirono a segnare il destino di quanti erano sfuggiti ad una morte più violenta. Quello che resta oggi di queste popolazioni, sono solo discendenti di sangue misto.



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si ringrazia Casilla do Sur per le immagini d'archivio

martedì 17 aprile 2007

Gli Indios patagonici

Nell’intera Patagonia argentina erano presenti numerose popolazioni aborigene, tra cui i Mapuche, i Tehuelche, gli Ona, gli Haush, gli Alakaluf, gli Yamana, per parlare dei ceppi più importanti per consistenza numerica. Gran parte di queste etnie oggi non esistono più, gli ultimi sopravvissuti in cattività, abbrutiti dalla fame, dalle malattie e ridotti ad ombre di se stessi, sono morti a meta del ‘900. Di loro restano solo fotografie e qualche cimelio, raccolti da esploratori che si erano spinti a queste latitudini con una diversa indole.
Sopravvivono oggi solo discendenti dei Tehuelche ed i Mapuche, nelle aree più a nord della Patagonia, perchè a soccombere sono state proprio le tribù che abitavano le terre a ridosso dello Stretto di Magellano e della Terra del Fuoco, dove la natura inospitale rendeva il tenore di vita già duro di per se.


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Giancarlo

si ringrazia Casilla do Sur per le immagini d'archivio

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lunedì 16 aprile 2007

L'Indio muore

“L’Indio muore” è un libro di Maurizio Leigheb uscito alla fine degli anni 70; una lucida analisi sulla condizione degli indios sudamericani, su cui all’epoca incombeva la minaccia di estinzione. A trent’anni di distanza, lungi dall’essere rientrato il rischio, queste popolazioni si dibattono tra l’eliminazione materiale dai territori in cui vivono e lo snaturamento d’identità in seguito all’approccio sempre più oppressivo e violento del “mondo civile”.
Tutto sommato queste popolazioni nella loro tragedia hanno goduto la fortuna di avere i riflettori di una parte del mondo occidentale puntati su di loro, quella di associazioni e ricercatori la cui vita è spesa nell’azione per la salvaguardia delle minoranze etniche.
Per lo più di popolazioni e tribù sparse nell’immensa selva amazzonica e Mato grosso si tratta, la cui odissea di sopravvivenza è iniziata ai tempi in cui queste regioni divennero colonie sotto il dominio delle corone di Spagna, Olanda, Portogallo, e non si è mai conclusa. Territori da saccheggiare in nome di altri dei, altre economie, altre civiltà.

Ma di altre culture già scomparse o in agonia, sterminate dalla presenza dell’uomo bianco, poco o nulla si è parlato. Tra le tante etnie sparse nelle selve, nei deserti e nelle savane dei cinque continenti, sicuramente un posto a se meritano gli indios patagonici, cancellati sulle loro terre già alla metà dell’800 e di cui solo pochi esploratori hanno potuto raccogliere testimonianze. Il paradosso è che queste popolazioni sono state annientate da altre popolazioni fuggiasche. Perché i coloni, sotto i cui colpi di carabina gli ultimi indios patagonici hanno finito i loro giorni, erano personaggi approdati su queste terre alla ricerca di lavoro, di fortuna, di salvezza, fuggiti dai loro paesi a causa di guerre, carestie, persecuzioni.
L’esistenza di grandi estensioni di territori scarsamente abitati (le popolazioni autoctone non rientravano in nessuna valutazione!) accendevano la speranza uomini in cerca di sopravvivenza e spingevano i governi ad offrire facile asilo a chiunque avesse voglia di colonizzare quelle solitudini. E i coloni arrivavano, spinti dalle difficoltà economiche e dai contrasti politici dei rispettivi paesi: immigrati tedeschi e svizzeri nell’area di Bariloche, inglesi e scozzesi nella provincia di Santa Cruz, gallesi, slavi e russi in quella di Chubut. Nella valle del Rio Negro s’insediarono invece italiani e spagnoli, mentre nel nord della Patagonia arrivarono i libanesi.
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Giancarlo

mercoledì 4 aprile 2007

Un ricordo intenso

Durante il mio viaggio in Argentina ho bevuto il màte due volte. È stato stranissimo: due esperienze completamente diverse.
La prima vola che ho incontrato la “zucca” ero sul pulmino che mi portava a Punta Tombo per vedere i pinguini. Pur non soffrendo il mal d’auto, tre ore di sterrato in mezzo al nulla incominciavano a minare il mio stomaco. L’autista e il suo assistente stavano preparando il màte; incredibile come riescano a non versarsi addosso l’acqua bollente e a bere màte in qualsiasi momento! Forse il pallore della mia faccia o la curiosità con cui li guardavo hanno fatto il resto: due minuti dopo stavo bevendo da una zucca una strana bevanda amara e, con tutto il rispetto, non troppo gradevole, utilizzando una strana cannuccia comunitaria.
Non ho chiesto molto su questa tradizione, ma mi sentivo parte di un rituale “diverso”, o forse così mi piaceva pensare. La cosa più strana erano le facce degli altri viaggiatori, quasi tutti schifati, ma a dire il vero in quel momento è stata l’ultima cosa a cui ho pensato.


Forse la prima volta non si scorda mai, ma in questo caso non dimenticherò neppure la seconda. Ero alle cascate di Iguazù, sul lato argentino e pioveva come non avevo mai visto in vita mia. La maggior parte dei turisti se ne stava rintanata nei bar, ma siccome l’acqua è il mio elemento, con un sano pizzico di incoscienza mi aggiravo nel parco, su e giù per le passerelle vuote e scivolose. Ormai ero talmente bagnata che ripararmi non sarebbe servito a nulla.
Seduta su una passerella con i piedi penzoloni nel vuoto, contemplavo le cascate: riescono ad essere incredibili anche in un giorno cosi inclemente! All’improvviso mi sento chiamare, mi volto ed un gruppetto di guide del parco, in pausa forzata, mi offrono un sorso della loro mistura.
Sarà stato il freddo, la pioggia o la vicinanza del caldo Brasile, ma quel màte risultava essere completamente diverso da quello assaggiato a Punta Tombo: era dolciastro, con un retrogusto di frutta.

In definitiva non posso dire che il màte sia stata la cosa più gradevole che abbia gustato in Argentina, ma sicuramente è uno dei ricordi più intensi che ho di questo paese.
Sabrina
Gerbino